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La storia di Pianosa.

La storia dell'isola di Pianosa è molto ricca, perciò in queste pagine offriamo solo spunti per chi desidera approfondire l'argomento.

I primi pianosini

Intorno al 5000 a.C., in seguito ad una progressiva risalita delle acque, queste raggiunsero quasi i livelli attuali. Gli uomini del Neolitico e dell'Eneolitico, in un breve lasso di tempo, si videro costretti ad abbandonare gli insediamenti nei pressi del mare per trasferirsi in luoghi più elevati, l'isolotto della Scola, con il suo sito neolitico, potrebbe essere una testimonianza di questo allontanamento forzato. Le più antiche tracce di presenza umana nell'isola sono però attribuibili al Paleolitico superiore, la loro scoperta è dovuta alle ricerche e all'accurata catalogazione eseguita dall'abate Gaetano Chierici nel secolo scorso.

Resti di popolazioni appartenenti al Mesolitico e al Neolitico, consistenti in strumenti litici e ceramiche provano la frequentazione dell'isola da parte di popolazioni probabilmente elbane, molti sono, infatti, i reperti lavorati o semilavorati in quarzo e selce provenienti dalla vicina isola, ma le presenze di ossidiana rimandano a commerci e scambi con la Sardegna, ulteriore segno dell'importanza di Pianosa come porto naturale di attracco e sosta per le rotte mediterranee.

I siti preistorici riferibili all'età del bronzo consistono in sepolture ad inumazione praticate in grotte naturali: la grotta artificiale detta "dei Due Scheletri", appartenente al tardo Neolitico-Eneolitico, ha restituito molto materiale classificabile come corredo funebre, già scoperto nel secolo scorso.

Le popolazioni preistoriche che risiedevano stabilmente a Pianosa hanno lasciato sul territorio una presenza consistente in sepolture di vario tipo, ossari, grotte artificiali o naturali e manufatti. I luoghi maggiormente interessati dalle attività umane sono: la caverna di Cala Giovanna, la caverna di Punta Secca, la grotta del Cortini, quella dei Due Scheletri e l'isolotto della Scola. Dalla dislocazione dei siti si può ipotizzare una economia preistorica basata essenzialmente sullo sfruttamento delle risorse ittiche; l'interno dell'isola, pur presentando ritrovamenti di tombe e piccoli pozzi per la conservazione di prodotti agricoli, non conserva tracce di insediamenti.

Recenti scoperte sono le tracce di reperti di tarda epoca etrusca, popolazione da sempre ritenuta assente da Pianosa (ma ben presente all'Elba).

Pianosa, i romani e i cristiani

L'isola di Planasia o Planaria è menzionata nelle opere di storici ed eruditi latini, Varrone ne attribuisce la proprietà ad un certo M.Pisone (forse un membro della famosa famiglia), Tacito la nomina spesso a proposito di Augusto e nel V secolo Marziano Capella la definisce ingannatrice dei naviganti. Le prime notizie documentate che riguardano Pianosa risalgono all'epoca del secondo triumvirato, (Antonio, Lepido e Ottaviano, 43-34 a.C.), quando Sesto Pompeo invase la maggior parte delle isole italiane, allora importanti per la produzione di grano, impedendo i rifornimenti alla terraferma.

  Le catacombe dell'isola di Pianosa.

Nel 37 Antonio cedeva la flotta ad Ottaviano, perché eliminasse il blocco navale imposto da Sesto Pompeo. Vipsanio Agrippa, amico, ammiraglio, e futuro genero di Ottaviano sconfisse Pompeo in due battaglie navali presso Milazzo e Nauloco nel 36. In seguito alle vittorie conseguite nelle guerre civili la Sardegna, la Corsica, la Sicilia, e l'Arcipelago Toscano tornarono in possesso di Roma. Ottaviano, che nel 27 a.C. ottiene dal senato il titolo di "Augustus" e nel 19 il potere consolare a vita, nel 6-7 d.C. esiliò a Pianosa, il nipote Agrippa Postumo su consiglio della seconda moglie, Livia Drusilla.

L'esule era figlio della dissoluta Giulia e di Vipsanio Agrippa, che aveva vinto nel 31 a.C. le flotte di Antonio e Cleopatra nella battaglia navale di Azio. Definito da Tacito privo di buone qualità, stoltamente feroce a causa della forza del corpo, ma privo di colpa, Agrippa era stato adottato dal nonno al fine di succedergli. Le accuse di omosessualità e di dissolutezza, furono rese pubbliche da Livia allo scopo di aprire la strada della successione al figlio Tiberio Nerone (avuto da un precedente matrimonio con Claudio Nerone) e allontanarono Agrippa per sempre da Roma.

Augusto era in ogni modo legato ad Agrippa, tanto che nella capitale si sparse la voce, probabilmente ad opera dello stesso imperatore, di una sua visita nell'isola per sincerarsi delle buone condizioni di vita del nipote. L'esilio di Agrippa sull'isola era attenuato da una piccola corte di amici e famigli, e non dovette essere particolarmente duro. Lo storico greco Dione Cassio (II-III secolo) sostiene che il nobile romano passava il suo tempo pescando e giocando ad impersonare Nettuno, forse alludendo a spettacoli tenuti nell'anfiteatro di Pianosa o alle decorazioni del complesso detto dei "Bagni di Agrippa", che probabilmente presentava decorazioni a soggetto mitologico marino su uno sfondo naturale. Secondo Tacito, Livia, volendo troncare del tutto i rapporti tra il marito e l'esiliato, richiamò allo scopo dall'Illiria il figlio Tiberio, divenuto per adozione unico successore designato di Augusto. Mentre quest'ultimo spirava a Nola, la prima impresa del nuovo imperatore fu quella di sopprimere Agrippa attraverso un sicario inviato nell'isola nel 14 d.C..

I recenti sopralluoghi effettuati della Soprintendenza Archeologica della Toscana, lasciano ipotizzare la presenza di un'altra villa marittima di epoca romana, i cui resti potrebbero trovarsi nei pressi del porto attuale. Questa costruzione sarebbe antecedente sia ai "Bagni di Agrippa", cioè i bagni termali e marini e al piccolo teatro, sia alla residenza signorile dello stesso, che probabilmente si trovava più all'interno, anche se nessun ritrovamento ne ha mai confermato l'esistenza. Che un facoltoso romano abbia abitato Pianosa prima della venuta di Agrippa Postumo potrebbe rappresentare la conferma del citato passo di Varrone. L'antico bagno di Agrippa nell'isola di Pianosa.

 

Sempre del periodo romano è un notevole sistema catacombale, scavato su due livelli, che si estende sotto gran parte dell'abitato, interessando il sottosuolo del paese e di una collinetta per circa tre ettari e mezzo. Una parte della catacomba contiene i sepolcri, un'altra fu probabilmente allargata in seguito, demolendo le pareti di alcune gallerie per creare un ambiente dove fosse possibile la riunione di più persone e la celebrazione di riti.

L'esistenza nell'isola di una comunità cristiana che costruì ed usò la catacomba, reperto archeologico ancora presente, ma molto degradato, è riportata in passato solo da un documento del 1553, a firma del titolare della pieve pianosina: "[...] non so altro che dirgli solo che in quella terra [Pianosa ] vi erano due chiese, una sotto il titolo di S. Giovanni Battista, qual è fuor dalle mura un tiro di moschetto, dove erano seppelliti tanti morti [le catacombe], e nel giorno di festa vi si cantava la Santa Messa. La chiesa di dentro poi era sotto il titolo di S. Nicolao [...]".

Notizie sulla catacomba di epoca tardoantica, databile a non oltre il IV secolo d.C. (in base ad alcuni frammenti ceramici) e non certo piccola, dato che conteneva più di 500 defunti, sono riportate dallo studio del Chierici, che ebbe occasione di visitarla nella prima metà del secolo scorso, quando era adibita a cantina, ricorda infatti il paletnologo emiliano: "Ma vi è un'estesa catacomba scavata nel tufo presso la Darsena di Augusto: oggi serve di cantina, e fra i tini e le botti si veggono le tombe vuote e squarciate, e da qualcuna spuntar le ossa degli scheletri sconvolti. [...] Probabilmente poi, per la venerazione a queste memorie dell'antica fede dei Pianosini, in tempi moderni il parroco prese stanza in un angolo della catacomba, che per verità ha pur esso più aspetto di sepolcro che d'abitazione; ed anche la prima chiesa fu posta lì vicina in una grotta, che non ha però comunicazione colle tombe".

La presenza di una così numerosa comunità di defunti lascia intuire una altrettanto popolosa comunità di vivi, ma nessun documento ad oggi pervenuto ne attesta la presenza sull'isola, inoltre dai rinvenimenti di monete e resti di suppellettili nei siti romani in superficie è stato accertato l'abbandono dell'isola già nel I secolo, probabilmente poco dopo l'assassinio di Agrippa e troppo presto per una così folta comunità cristiana. Una così notevole presenza potrebbe essere dovuta ad una deportazione per motivi religiosi. Tale ipotesi rimane la più anche se secondo recenti studi la catacomba è databile al III-IV secolo, nel 313 infatti Costantino emana da Milano l'editto di tolleranza per i cristiani e nel 391 il cristianesimo diverrà religione di stato, difficile pensare quindi a dei deportati in questo periodo.

All'interno della catacomba il Chierici ritrovò, in due diverse ramificazioni, due croci scolpite nella roccia, una in forma latina (con l'asta più lunga delle braccia) di circa 30 x 20 cm, l'altra, in forma greca (con l'asta e le braccia della stessa lunghezza) di una decina di centimetri.

Quest'ultima croce era stata tracciata nell'incavo usato per riporre la lucerna, quasi nascosta e lo studioso se ne servì per dedurre l'età della catacomba o almeno di quella diramazione: "E questo, che pare studiato nascondimento del segno de' cristiani, fu già osservato nelle catacombe di Roma e riferito a tempi di persecuzione. Se qui però finisce la catacomba, come ogni circostanza persuade che è questa una delle sue parti più recenti, converrebbe dire ch'essa fosse tutta anteriore al secolo quarto e che l'isola sul finire della dominazione di Roma pagana avesse de'cristiani, ma pochi e nascosti".

Un altro mistero riguardante la catacomba pianosina è la sovrapposizione di più defunti nello stesso loculo, usanza di solito evitata se non espressamente proibita nei primi tempi del cristianesimo, nonché la presenza di alcuni scheletri con anelli di ferro alle caviglie. Questo interrogativo può essere in parte risolto da una lettera dell'archeologo cristiano G. B. de Rossi inviata al Chierici, e allegata al breve trattato sui monumenti di Pianosa (la lettera fa parte di un voluminoso carteggio intercorso tra i due studiosi sulla catacomba tuttora inedito, al quale l'abate Chierici aveva inviato disegni e resoconti sulla sua scoperta), scrive il de Rossi: "La catacomba da lei descritta parmi senza dubbio cristiana. Le croci ch'ella ha osservate con tanto studio scolpite mi sembrano indizio evidente della cristianità del sotterraneo sepolcreto. I poliandri con ossa sovrapposte contro il rito primitivo possono essere abuso del medio evo, quando forse furon in quegl'ipogei sepolti i galeotti, di che si trovò indizi".

Da Pipino il Breve agli Appiani

La caduta dell'impero romano e il conseguente dominio dei barbari pare non aver interessato Pianosa, tanto da supporre che, come la vicina Elba, all'epoca fosse del tutto disabitata o quasi.

A partire dalla seconda metà del VI secolo i longobardi, provenienti dalla Pannonia e guidati dal re Alboino, dilagano velocemente per la Pianura Padana, dirigendosi verso l'Italia centrale e meridionale, sconfiggendo ripetutamente le deboli forze bizantine.

L'espansione longobarda è costante ma il potere centrale viene minato dalla eccessiva autonomia concessa ai duchi, determinando una situazione di semi-anarchia, fino alla incoronazione di Liutprando (712-744), che porta il dominio longobardo alla massima espansione territoriale. Nel tentativo di contendere a Bisanzio i residui territori italiani, la Romagna e le Marche, Liutprando urta gli interessi della Chiesa, allora limitata al controllo del Ducato Romano. Il fallimento dell'impresa costa al re longobardo la donazione al pontefice della cittadina di Sutri, atto che viene considerato l'inizio del potere temporale della Chiesa.

I successori di Liutprando, prima Rachis e poi Astolfo, riprendono la guerra, strappando a Bisanzio i territori contesi, ma papa Stefano II invoca l'intervento di Pipino il Breve, da lui incoronato re dei franchi, che in due campagne, nel 754 e nel 756 sconfigge Astolfo e lo costringe a cedere tutte le terre conquistate alla Chiesa.

La "Donazione di Pipino", effettuata nel 755, comprendeva anche l'Arcipelago Toscano, e fu riconfermata dal figlio Carlo Magno. Il 6 aprile 774 un incontro politico si svolse presso la basilica di San Pietro a Roma, i dignitari e i legati di Carlo Magno e del pontefice Adriano I, stabilirono una linea di demarcazione ideale tra Luni e Monselice, per cui la penisola veniva divisa in due sfere di influenza: al Nord i Franchi, al Centro sud e alle isole la Chiesa, che esercitava su quelle terre la protezione, non il dominio.

Pianosa e l'Elba fecero parte dell'antica diocesi di Populonia, attestata dalle cronache ecclesiastiche sul finire del V secolo, ma che probabilmente fu abolita con il trasferimento della sede vescovile a Massa Marittima a metà dell'VIII secolo, assumendo la denominazione di diocesi di Massa e Populonia.

In seguito all'impegno dimostrato nella lotta per mare contro i saraceni, alla città di Pisa furono concessi privilegi e franchigie dall'Impero. La vittoria in una battaglia navale svoltasi proprio nelle acque dell'Arcipelago Toscano nell'874 permise a Pisa di avere in affidamento la difesa di queste isole; tale concessione divenne vera e propria sovranità pochi anni dopo il 1000; dal 1034 la Sardegna e la Corsica fecero parte integrante del territorio della repubblica pisana.

L'isola di Pianosa riaffiora qua e là nelle cronache municipali delle repubbliche marinare di Pisa e Genova, che se ne contesero il dominio, forse a causa della notevole posizione strategica, attorno al XII-XIII secolo.

Il primo assalto genovese a Pianosa sembra databile al 1088, quando i pisani si accingevano a fortificare il piccolo paese. Nel 1112 una flottiglia genovese composta da sette galere invase Pianosa, i pisani a loro volta, allestita una flotta superiore per forze e numero costrinsero i genovesi a lasciare l'isola non senza prima aver distrutto le fortificazioni e il porticciolo.

In un placito promulgato a Pisa il 9 novembre 1138 si notifica la cessione dell'isola, riconquistata, a diversi magnati cittadini del tempo, tra i quali tale Leone di Cunizio che con un atto pubblico rinunciò a metà isola, cedendola ad un non meglio specificato Balduino, arcivescovo di Pisa.

Altra incursione genovese sembra si sia verificata attorno al 1170: " Verso il 1170 era divenuto un pomo della discordia tra di essi [ Pisani e Genovesi] la fortezza lucchese di Motrone posta fra Viareggio e Pietrasanta, perché i Genovesi vi tenevano mercato, e di consenso dell'amica Repubblica di Lucca vi avevano costruiti vari edifizi che i Pisani ad ogni modo volevano distrutti. Da ciò nacque aspra pugna in cui l'oste genovese e lucchese sofferse completa disfatta, A questa però fu pari la vendetta, giacché gli ardimentosi Liguri presto ripresero il primato sul dominio marittimo, e il consolo, Corso di nome, sebbene grave di anni e capitano di sole sette galee, navigò alla volta di Pianosa, pose l'assedio alla terra ed al porto ricinto allora di grosse mura e difeso da forte rocca; e mentre una porzione delle truppe da sbarco invadeva l'isola da un lato, ei penetrò da una breccia nel castello e ne restò padrone. Ma giunse sollecito avviso che una numerosa armata era partita da Porto Pisano per sorprenderlo, quindi è che Corso distrusse all'istante i baluardi e il forte, e levata l'ancora piegò ad ostro le prue, riparando nel golfo di Bonifazio".

I genovesi sbarcarono nuovamente in forze nel 1283, accampando la scusa che gli abitanti esercitavano la pirateria. Furono così distrutte le nuove torri edificate dai pisani, depredato ed incendiato l'abitato e condotti a Genova come prigionieri 150 abitanti.

A questa incursione si riferisce lo Zuccagni Orlandini, che a sua volta cita diversi cronisti genovesi: "Preludio funesto alla totale distruzione della potenza marittima dei Pisani, fu la nuova presa di Pianosa. Tommaso Spinola, esciva dal porto di Genova nel 1283 con trentaquattro galee, anelante d'imbattersi in legni pisani. Una furiosa traversia lo respingeva sulle riviere, ma da coraggioso ed esperto navigatore raccoglieva di fianco il soffio dei libecci, e riuscivagli di afferrare le coste di Capraia. Di là partiva inosservato alla volta di Pianosa, risoluto di devastarla; stantechè, al dir del Caffaro, era già ripopolata di nuovi coloni, ma di crudele e pessima indole. Forse erano essi infesti alla navigazione dei mercatanti, poiché gli annalisti genovesi asseriscono che anche ai tempi del consolo Corso quegli isolani davano aspre molestie a chi commerciava colla Corsica e colle spiagge romane: ma lo Spinola seppe ben punirli, poiché disceso a terra co' suoi prese la borgata d'assalto, distrusse le nuove torri col ferro e col fuoco e pose in ceppi una gran parte della popolazione".

I pisani tornarono in possesso di Pianosa pochi mesi dopo, come conferma un documento, datato 5 febbraio 1284: l'arcivescovo di Pisa, Ruggero, mostrò al consiglio cittadino una lettera del suo omologo genovese che auspicava la liberazione di un suo chierico detenuto nelle "carceri pisane da quelli di Pianosa", promettendo in cambio la liberazione di "Ugolino figlio di Uguccione Vernagalli chierico suddiacono, e Pievano dell'isola di Pianosa, stato preso nel mese di aprile o maggio ultimo passato [...] detenuto nelle carceri di Genova coi laici pisani".

La disfatta pisana nella battaglia navale della Meloria (1284) renderà vano tale piano di scambio permettendo a Genova di divenire padrona di tutto l'alto Tirreno. Pianosa tornerà sotto l'autorità di Pisa pochi anni dopo, promettendo a Genova di lasciare l'isola incolta e disabitata. Contravvenendo a tale patto, Pianosa fu ceduta in affitto dai signori di Pisa, gli Appiani, prima ad una famiglia pisana, i De Leis, in seguito alla famiglia corsa dei Landi nel 1344.

Non potendo più governare Pisa ed il suo territorio, la famiglia Appiani lo venderà a Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, nel 1399, per la somma di 200.000 fiorini d'oro. Con il ricavato Gherardo Appiani si ritirò a Piombino, dando inizio alla storia del piccolo principato, costituito da Suvereto, Scarlino, Buriano, Vignale, Populonia, e dalle isole dell'Elba, di Pianosa e di Montecristo.

I sudditi del principato si lamentarono nel 1489, presso la piccola corte degli Appiani, della presenza nell'arcipelago di pirati spagnoli, comandati da un certo Francesco Turriglia detto "fra Carlo Pirata". Jacopo IV Appiani, a sua volta, se ne lamentò col monarca spagnolo, che provvide a far allontanare i predoni. Cesare Borgia, detto il Valentino, conquistò agli Appiani buona parte dei loro possedimenti continentali ad esclusione di Piombino che gli oppose resistenza, e lo costrinse momentaneamente a rivolgere le sue armi contro l'Elba e Pianosa, che caddero quasi subito nel 1501. Solo la morte del pontefice Alessandro VI (papa Borgia, padre del Valentino) permise al piccolo stato di riscattarsi e di tornare ai legittimi proprietari, sotto la protezione delle armi spagnole.

Una interessante descrizione di questo periodo, è offerta dalle "memorie" di Sebastiano Lambardi, un cronista settecentesco: "Nel 1501 Cesare Borgia figlio di Alessandro VI, persona di somma perfidia, e di crudeltà più che barbara, di Cardinale divenne Capitano di cento fanti datigli dal Re di Francia Luigi XII, con la città di Valenza nel Delineato, dalla quale prese il nome di Valentino, (d'onde discendono oggidì i Duchi di Valentino in Francia Signori del Principato di Monaco), mosse guerra a Giacomo IV [Jacopo VI] d'Appiano, successore di Giacomo III suo padre, e ciò fece, ajutato da'Senesi.

Avendo dunque occupato, Sughereto, Scarlino, e l'Isola dell'Elba con la Pianosa, luoghi di quella Signoria, vi lasciò gente per guardia". Jacopo V Appiani ricevette l'investitura imperiale del feudo nel 1520 da parte di Carlo V (1500-1558), re di Spagna.

I pirati, Napoleone, il Granducato

Nel 1519 Carlo V era stato nominato imperatore riunendo sotto la sua corona i regni di Spagna, Austria, i domini tedeschi e italiani e i territori d'oltreoceano.

Allarmato dall'espansionismo spagnolo, il re di Francia Francesco I (1515-1547) si alleò con il sultanato contro l'imperatore, in seguito a questa alleanza il corsaro algerino Khair-ar-din detto il Barbarossa, fedele vassallo turco infestò le coste italiane e spagnole.

Il Barbarossa assalì e depredò l'Elba e la costa toscana per due volte: nel 1534 e nel 1544, rendendo inoltre per molti anni estremamente insicura la navigazione. Per rendere più tranquille le rotte mediterranee e i propri possedimenti, su sollecitazione del pontefice Clemente III e del suo successore Paolo III, Carlo V allestì una flotta riuscendo ad assediare e espugnare la città di Tunisi nel 1535, roccaforte dei saraceni, ma il Barbarossa riuscì a sfuggire alla cattura. La spedizione imperiale rese comunque la libertà a ben 20.000 prigionieri.

Affinché lo stato di Piombino fosse più efficacemente difeso dai turchi, Carlo V tentò di affidarlo a Cosimo I dei Medici nel giugno 1548, ma per le notevoli pressioni esercitate dai principi italiani e dalle potenze europee, poco più di un mese dopo il piccolo stato fu restituito agli Appiani.

Il 15 agosto 1552 Carlo V di Spagna riuscì nel suo progetto, consegnando a Cosimo I, Granduca di Toscana, lo stato di Piombino. In cambio, i Medici avrebbero versato nelle esauste casse imperiali un prestito di duecentomila scudi, occorrenti al sovrano spagnolo per proseguire la guerra in Germania contro i Protestanti.

Un'ennesima incursione piratesca, la più famosa e cruenta, si verificò a Pianosa nel 1553, ad opera di una flotta "gallo-turca" comandata dal feroce Dragut, alleato dei francesi nella guerra contro la Spagna. La flotta turca, forte di 60 galere e di 22 navi minori si riunì alla flotta francese al largo della Sicilia, devastandone i centri costieri, si portò in seguito in Sardegna e al largo della Corsica per poi approdare a Montecristo. Lasciata quest'ultima, le flotte alleate si ancorarono nel golfo di Longone, sbarcarono una notevole forza d'invasione che assalì prima Capoliveri, poi Rio, i cui abitanti si erano rifugiati nella fortezza del Giogo.

Mentre i franco-turchi si apprestavano ad assediare la fortificazione riese e il comandante degli assediati trattava la resa affidandosi alla benevolenza dei francesi, una parte delle imbarcazioni turche, circa una dozzina, si avvicinava a Pianosa, sotto il comando di Kara Mustafà (detto anche Mustafà Bassà), comandante in seconda della flotta ottomana, Giuseppe Ninci ricorda così l'incursione, riprendendola a sua volta da altri cronisti dell'epoca: "Giunto in questa isoletta [Karà Mustafà] attaccò il fuoco alle coltivazioni ed ai spineti, che in breve tempo furono in cenere; quindi si postò sotto la terra o castello che essendo ben difeso da una forte muraglia, potè resistere sul bel principio all'urto del nemico. Maggior resistenza trovò, Mustafà, nella torre posta in bocca del porto, sopra uno scoglio inaccessibile: ma finalmente bisognò che l'una e l'altra cedessero al vivo fuoco del barbaro. Duecento schiavi fra uomini e donne furono fatti in quell'isoletta e imbarcati sulle galere della divisione di Karà Mustafà; non essendosi salvata al furore dei turchi che una famiglia, la quale trovavasi casualmente nella parte opposta dell'isola, cercò asilo nelle caverne di alcune scogliere che si gettano nel mare; e alcune altre poche già refugiatesi nel vicino continente d'Italia."

Lo stesso evento, viene narrato in forma leggermente diversa per ciò che riguarda le operazioni militari dal pievano dell'isola, don Deodato Spadai in un rapporto inviato al proprio vescovo, Monsignor Ventura Bufalini. Il Ninci riporta così il documento: "La distruzione di Pianosa avvenne in tal guisa. L'armata dei Turchi e Francesi andava a invadere la Corsica, quando Karà Mustafà passò in Pianosa con una divisione di 12 galere: batté la terra, ma non poté prenderla, avendola battuta dalla parte di ponente: ma sopraggiungendovi Dragut con altre galere, e conducendo seco un Corso, questi gli mostrò il modo, che dovevano tenere per rendersene padroni; di batterla cioè dalla parte di levante, come infatti avvenne. Karà Mustafà alla prima cannonata ruppe la muraglia della cisterna della rocca; né solo li privò di quella, ma anco ammazzò molte persone. Presa risoluzione i paesani mandarono imbasciata a quei di fori con pattuire che si sarebbero dati alla Francia, purché restassero nel paese e non prigioni: ma la risposta di Karà Mustafà fu, che si potevano dare al diavolo, che il padrone era e ne voleva esser lui; e così seguì la distruzione della terra di Pianosa, abbenchè fosse circondata di buone muraglie e nel mezzo una bellissima rocca, la quale è quella che restò espugnata per la rottura dell'acqua. Essa faceva da quaranta in quarantacinque fuochi".

Un breve cenno della feroce incursione lo troviamo anche nelle cronache del Lambardi: "Venuti [i franco-turchi] in quest'isola [la Corsica] si divise la detta armata in due parti, una si fermò in Corsica, e l'altra andò in Pianosa isola allora abitata. Vi fecero da duegento schiavi, che più non ve n'era".

A seguito di questa incursione, l'isola divenne un insidioso rifugio per le navi corsare che potevano agevolmente interrompere i traffici marittimi tra Roma e Livorno. Durante l'occupazione fiorentina dello Stato di Piombino, il giovane Jacopo VI si rifugiò a Genova con la madre, ponendosi sotto la protezione di quella repubblica.

Nel 1553 la guarnigione della città di Piombino viene rafforzata da Cosimo I con l'invio di truppe spagnole. L'anno successivo Portoferraio viene salvata dai turchi grazie alla resistenza delle forze terrestri comandate dal governatore di Piombino, il colonnello Lucantonio Cuppano e dall'intervento di quattro galere comandate dall'Appiani, divenuto nel frattempo Capitano Generale per conto della Signoria fiorentina.

Nell'estate del 1555 la flotta corsara devasta Portolongone, ma nel tentativo di assediare Piombino viene sconfitta.

Lo stato piombinese torna nelle mani di Jacopo VI Appiani il 29 maggio 1557,con il trattato di Londra, ma i Medici trattengono il possedimento di Portoferraio, (Cosmopoli). Alessandro Appiani, figlio naturale di Jacopo VI e di una cugina della legittima moglie, successe al padre nel 1585 alla guida del piccolo principato piombinese, in seguito a varie e complesse vicende. Il nuovo principe entrò in contrasto col Granduca fiorentino, rifiutandosi di fortificare le isole di Pianosa e Montecristo, per evitare che diventassero covi di pirati, e rigettando anche le pressanti richieste di vendita delle due isole avanzate dal governo granducale. Forse per questo motivo nel 1558, in seguito ad una nuova incursione turca Pianosa si spopolò di nuovo.

Re Filippo II di Spagna ordinò espressamente all'Appiani di fortificare Pianosa e Montecristo e di riscattare dalle misere condizioni di vita gli elbani. Alessandro Appiani fu però assassinato a Piombino il 28 settembre 1589. L'uccisione del monarca, seppur di un piccolo stato, destò grande scalpore. I motivi pare debbano attribuirsi ad un complotto ordito dalle maggiori famiglie piombinesi, dalla moglie di Alessandro, Isabella di Mendoza e dal comandante del presidio spagnolo, Don Felix de Aragona, che con lei aveva una relazione. Le cronache del tempo accennano invece ad una rivolta popolare o a una vendetta per riscattare l'onore perduto di qualche dama. Tale situazione provocò un breve periodo di anarchia, ma in seguito all'intervento di truppe spagnole e napoletane le isole e Piombino furono riconsegnate agli Appiani nella persona di Jacopo VII.

Il duca di Savoia chiese Pianosa agli Appiani per affidarla ai Cavalieri Mauriziani nel 1587, ma la richiesta non ebbe seguito.

L'imperatore Rodolfo II nel 1594 eleva a principato il feudo piombinese.

Il Granducato di Toscana tentò più volte di entrare in possesso dell'isola di Pianosa: nel 1586 Francesco II, nel 1594 Ferdinando I, nel 1600 Cosimo II si appellarono ai sovrani spagnoli. Ma il re di Spagna Filippo III, avocherà direttamente a sé il governo del piccolo stato dal 1603 al 1611, affidandolo al reggente Don Mattia Beltram di Manurga. Nel 1603 verrà tolto al principato il territorio di Portolongone, dove gli spagnoli inizieranno la costruzione di una fortezza.

In seguito alla mancanza di eredi diretti e in presenza di un contenzioso tra i rimanenti Appiani, il principato viene venduto da Ferdinando II, imperatore del Sacro Romano Impero, a Niccolò Ludovisi nel 1634, per la somma di un milione di fiorini d'oro. Dal 1646 al 1650 Niccolò fu spodestato dai francesi che occuparono Piombino e le isole, per sottrarle all'influenza spagnola. La principessa Ippolita Ludovisi nel 1681 sposa Gregorio Boncompagni, Duca di Sora, nei patti del matrimonio figura l'intenzione di mantenere il doppio cognome Boncompagni-Ludovisi.

Dal 1708 le truppe imperiali austriache presidiano il principato, sostituite nel 1734 da quelle napoletane.

Nel 1712 i Ludovisi permisero agli elbani di coltivare Pianosa e nel 1722 autorizzarono gli abitanti di Campo e Marciana di tagliare quantitativi limitati di legna per rimediare alla carestia seguita ad una vendemmia disastrosa. Ma la sfortuna perseguita i pianosini, infatti, nello stesso anno le cronache riferiscono che gli elbani a Pianosa, intenti a procurarsi legna:" [...] sorpresi improvvisamente dai barbareschi, vennero, nonostante la loro resistenza, caricati di catene e condotti schiavi".

Solo con l'anno 1735, in conseguenza del trattato di Vienna, le potenze belligeranti concordarono nell'affidare il Granducato di Toscana (essendosi estinta per mancanza di eredi maschi la dinastia dei Medici) a Francesco duca di Lorena e di Bar, marito di Maria Teresa d'Austria, riconoscendone la qualifica di subfeudo imperiale austriaco.

Nel 1790 il principe di Piombino incaricò un abitante di Campo di sua fiducia, Antonio Sardi, di visitare Pianosa e compilare un rapporto dettagliato sulla situazione e lo stato dell'isola.

Il Sardi trovò circa 100 agricoltori "stagionali", cioè non stabilmente residenti, presenti in Pianosa solo al momento del raccolto delle varie piantagioni, una decina di pescatori napoletani, la cui presenza era anch'essa temporanea e venticinque pastori con circa tremila pecore.

Le navi venivano ancorate nella baia di S. Giovanni, che offriva solo un riparo naturale ma la tassa di ancoraggio veniva loro fatta pagare ugualmente in ragione di un "paolo" ad albero, e questa pareva essere l'unica entrata fiscale della comunità. L'inviato Granducale trovò anche alcune saline produttive sul litorale e una grande quantità di legna da ardere. Il rapporto si concludeva con la considerazione che l'isola era una proprietà da mantenere e incrementare, purché ogni contadino fosse fornito di un archibugio, pistole, quattro libbre di polvere da sparo, cento pallottole e sei moschetti, giudicate dal Sardi armi non ancora sufficienti per tenere lontani i "pirati algerini". Nel luglio 1796 truppe inglesi, in guerra col governo rivoluzionario francese, sbarcarono a Portoferraio e occuparono l'Elba, cui seguì la presa di Piombino nel settembre dello stesso anno.

Le cronache tacciono circa la situazione di Pianosa in questi anni fino al 1800, quando l'avvicinarsi di navi sconosciute metteva in allarme, questa volta inutilmente, gli occasionali abitanti: "Un convoio di vari legni comparsi il 13 Decembre sulla Pianosa, ove trovavansi molti Elbani a seminare, secondo il solito, pose in allarme la nostra isola [...] i legni comparsi sulla Pianosa, erano di nazione amica, e destinati al commercio."; la paura dei pirati aveva reso Pianosa disabitata e sfruttata dagli elbani solo come terreno agricolo.

All'inizio del XIX secolo, l'Elba era dunque divisa in tre stati: il Granducato di Toscana governava Portoferraio, il regno di Napoli controllava Longone e nel 1797 contingenti di truppe napoletane sostituirono gli inglesi nel resto del principato di Piombino. Nel marzo 1801 il re di Napoli cedeva i territori del principato alla Francia. Il 27 agosto 1802, Napoleone Bonaparte, Primo Console della Repubblica, stabiliva che l'Elba, Capraia, Pianosa, Palmaiola e Montecristo "[...] erano riunite al territorio della Repubblica francese". Per la prima volta un territorio così esiguo ma sempre frazionato tra le potenze europee si trovava sotto la stessa amministrazione, avendo il privilegio di un deputato al corpo legislativo francese.

In base ad un riassetto amministrativo nel 1803 Pianosa era stata assegnata alla giurisdizione della municipalità di S.Piero in Campo.

Il 18 marzo 1805 Napoleone affidava Piombino, l'Elba e "[...] la vicina deserta isola di Pianosa" alla sorella Elisa Bonaparte Baciocchi, reggente assieme al marito Felice. L'isola venne nuovamente fortificata contro le incursioni nemiche nel 1806 e munita di soldati e cannoni.

Con un decreto del 7 aprile 1809 l'Arcipelago Toscano fu riunito alla Toscana, che era passata sotto il governo francese nel 1807 ed era stata divisa in tre dipartimenti: Arno, Ombrone e Mediterraneo.

Nel 1809 fu conferito dal fratello alla Baciocchi il titolo di Granduchessa di Toscana.

Nello stesso anno una grossa nave francese si riparò nel piccolo porto di Pianosa ma fu inseguita e depredata da una squadra inglese, nonostante le batterie del forte tentassero di difenderla. Forse per punire gli abitanti dell'isola, il 25 maggio 1809, due brick ed una fregata britanniche sbarcarono 150 fanti di marina, che, appoggiati dalle artiglierie delle navi attaccarono il presidio, uccidesero il comandante e costringensero il piccolo contingente franco-elbano alla resa. Gli inglesi, prima di allontanarsi da Pianosa, distrussero la torre, catturarono i militari francesi e rimandarono a casa gli elbani e la vedova del comandante lasciando l'isola quasi del tutto deserta.

L'entrata degli alleati a Parigi in seguito alla disastrosa campagna di Russia costrinse l'Imperatore ad abdicare nel 1814; in risarcimento della perduta sovranità sugli immensi territori un tempo posseduti, gli venne concessa l'Elba come luogo d'esilio. Napoleone sbarcò all'Elba, costituita in Principato, il 4 maggio dello stesso anno, prendendone pieno possesso, anche se sotto la costante sorveglianza degli inglesi.

Bonaparte si recò due volte a Pianosa, trovandola "la più interessante" delle isole vicine all'Elba, apprezzandone la ricca vegetazione e la fauna, costituita anche da "numerosi cavalli selvatici". Sotto la sua direzione fu ricostruita la torre a guardia del porto e posta alla sua difesa una batteria di sei cannoni (prelevati dalla fortezza di Portolongone) presidiata da cento militari che si avvicendavano ogni mese alloggiati nella casermetta ricostruita allo scopo.

Da parte di molti antibonapartisti l'annessione di Pianosa venne considerata un vero e proprio atto di guerra a testimonianza di come, pur in esilio, Napoleone non fosse stato del tutto piegato dai vincitori di Lipsia.

A Pianosa furono ricostruite le fortificazioni forse a causa della presenza in Corsica del governatore Brulart, risoluto nemico personale dell'Imperatore. E' probabile quindi che l'isola potesse servire, nei progetti di Napoleone come avamposto dell'Elba contro improvvisi colpi di mano provenienti dalla sua terra natale.

Napoleone diede a Pianosa, almeno sulla carta, un ordinamento militare, civile e religioso: nominò un comandante dell'isola, un comandante di presidio, un ufficiale del genio, un magazziniere, un deputato di sanità, un medico ed un cappellano.

Essendo l'isola fertile e abbondante di selvaggina, gli abitanti di Campo nell'Elba e di Marciana la coltivavano ad anni alterni, utilizzandola per pascolare il bestiame che ammontava all'epoca a circa settemila unità.

Bonaparte fece costruire alcuni piccoli edifici con materiali di riporto per facilitare l'insediamento di coloni, dato che da tempo l'isola era disabitata se si escludevano i distaccamenti militari; esentò dal pagamento di alcuni balzelli gli operai che si recavano a Pianosa per eseguire i lavori da lui ordinati. L'intenzione era quella di stabilire a Pianosa 40 famiglie assegnando loro in anticipo una somma in denaro, due bovini da lavoro, due mucche da latte, dieci pecore, sei sacchi di semenze, la proprietà di un quarantesimo di uliveto nonché l'esenzione da imposte per cinque anni.

Sull'isola furono inviati anche alcuni reclusi per sfoltire il carcere di Portoferraio troppo affollato. Napoleone stesso sorvegliava il buon andamento dei lavori a Pianosa, che si interruppero per l'arrivo di inviati francesi probabilmente emissari dei bonapartisti, i quali premevano per il suo urgente ritorno in Francia.

Bonaparte lasciò l'Elba il 26 febbraio 1815 dando origine ai "cento giorni". Sconfitto nella battaglia di Waterloo, (18 giugno 1815) verrà esiliato a Sant'Elena, nell'Oceano Atlantico, dove morirà nel 1821.

In base agli accordi stipulati nel 1815 fra le potenze vincitrici durante il Congresso di Vienna, l'Elba e le isole limitrofe furono inglobate nel Granducato di Toscana, retto all'epoca da Ferdinando III, e vi rimasero sino al 27 aprile 1859, nel gennaio 1860 gli abitanti votarono in massa per l'annessione al Regno d'Italia.

Il governo toscano ultimò i lavori avviati da Napoleone su Pianosa, insediandovi una guarnigione di 40 guardiacoste e fu tentato invano di affittare l'isola a proprietari terrieri elbani, ma costoro la trascurarono al punto di lasciarla deserta e quasi spoglia di vegetazione.

Nel 1817 Pianosa fu oggetto dell'attenzione dell'accademia dei Georgofili di Firenze: il prof. Antonio Targioni Tozzetti in una lezione descrisse la situazione di flora e fauna insulari, lamentando l'eccessivo sfruttamento in tutti i sensi operato dagli agricoltori elbani.

Nel 1829 fu tentata da parte del comandante del distaccamento di Pianosa, Giovanni Domenico Murzi, la piantagione di una vigna di 18000 viti, che in seguito produsse un ottimo vino.

Leopoldo II Granduca di Toscana visitò l'isola con la sorella Maria Luisa nel 1833.

Secondo un progetto del conte Attilio Zuccagni Orlandini, era possibile tentare un esperimento di ripopolazione e coltivazione dell'isola. In proposito il conte richiese anche il parere dell'accademia dei Georgofili di Firenze, che lo invitò a proseguire nell'intento. Il conte Zuccagni costituì una società con il console prussiano a Livorno, Carlo Stichling, il governo toscano affittò loro l'isola per la somma di 1500 fiorini all'anno, esonerandoli dalle imposte per un decennio. Attorno al 1835 iniziarono i lavori di restauro delle abitazioni. Impossibilitato a terminare l'impresa, Stichling cedette la propria quota al ministro prussiano a Firenze, conte Carlo Godardo Schaffgotsch nel 1841. I risultati positivi non mancarono: furono restaurate le abitazioni civili, le fortificazioni, si tentò con successo di piantare ulivi, vi si importarono tutti i tipi di animali da allevamento. Entro pochi anni l'impresa fu però abbandonata, dato che nel 1855 Pianosa ritornò in diretto possesso del governo toscano.

Nel 1856, a titolo sperimentale fu istituita nell'isola una colonia di correzione per minorenni.

Attorno alla metà dell'Ottocento Pianosa era dunque già destinata a luogo di reclusione: sull'isola furono infatti relegati i "sovversivi" e tutti coloro che attentavano sia verbalmente che materialmente alla sicurezza del governo granducale. Non si trattava di una carcerazione vera e propria, soprattutto per i politici, bensì di una sorta di domicilio coatto riservato ai carbonari, ai mazziniani ed agli anarchici in genere, quasi tutti provenienti dall'Elba e dal livornese.

Nel 1858 viene istituita "la colonia penale agricola della Pianosa" e furono inviati sull'isola i condannati "al carcere, alla casa di forza, ed all'ergastolo a tempo", tutti destinati ad occuparsi dei lavori nei campi. Nel 1861, al momento della proclamazione dell'unità d'Italia, il totale dei reclusi ammontava a 149.

L'isola-carcere

Inizialmente la colonia penale e l'azienda agricola erano due realtà distinte e separate. Pianosa era amministrata dalla Direzione dei Regi Possessi della Toscana, rappresentata sul posto da un agente che giornalmente richiedeva alla Direzione dello Stabilimento penale i detenuti-lavoratori occorrenti per le coltivazioni. Questa situazione fu modificata nel 1862, ponendo tutte le amministrazioni presenti sull'isola alla esclusiva dipendenza del Ministero dell'Interno.

Nel 1863 un apposito decreto del Ministero dell'Interno approvò regolamento e norme per la Colonia Penale di Pianosa. L'anno seguente fu terminato un edificio capace di ospitare 350 carcerati, ma nel 1872 si preferì dividere l'isola in diversi centri di produzione agricola detti poderi dislocando così i reclusi in piccole comunità. Fu in questi anni, soprattutto sotto la direzione del Cav. Ponticelli che Pianosa venne quasi completamente edificata, fino ad assumere, a grandi linee, l'aspetto attuale. Morirà in quel periodo a Pianosa l'anarchico Passanante, attentatore di re Umberto I.

Nel 1869 un Decreto Regio istituì la colonia penale di Gorgona, come succursale di Pianosa, rendendola poi autonoma con 250 reclusi quattro anni dopo. Anche a Montecristo furono trasferiti dall'Amministrazione Penitenziaria di Pianosa 12 detenuti e quattro guardie, richiamandoli però quasi subito data la assoluta antieconomicità dell'esperimento. Attorno al 1880 il carcere sull'isola ospitava ben 960 reclusi.

A partire dal 1884, nella Casa Penale di Pianosa vennero trasferiti dalle carceri di tutta Italia i detenuti ammalati di t.b.c., che si unirono così ad altri già presenti sull'isola, rimanendovi fino al 1965. Il trattamento dei detenuti tubercolosi avveniva in tre strutture: Preventorio (attuale Centrale) dove venivano accolti i supposti malati per le prime visite; il Sanatorio (ex Podere del Cardon, attuale Agrippa) un ospedale ben attrezzato per la cura delle malattie polmonari; il Convalescenziario (Podere del Marchese) dove i detenuti guariti trascorrevano un periodo di convalescenza.

Dal 1860 al 1946 i deceduti per tale malattia ammontavano a circa 2350, e numerosissimi furono i reclusi trattati nelle strutture ospedaliere di Pianosa, è da tener comunque presente che, godendo i malati di vitto, alloggio e disciplina migliori di quelli degli altri carcerati, probabilmente molti comuni detenuti riuscirono a farsi passare per ammalati.

Il botanico Somier, recatosi più volte sull'isola nel periodo a cavallo tra i due secoli, compilò un breve censimento della popolazione residente sull'isola nel 1909: " Tutta la popolazione libera di Pianosa consiste in un direttore, un vicedirettore, un contabile, un segretario, due computisti, un'agronomo con due assistenti, due medici, un prete, una maestra elementare, un rappresentante della Navigazione Generale, che cumula le mansioni di ufficiale postale, ufficiale dello stato civile ecc., due fanalisti, una guardia di finanza, uno spazzino comunale, il guardiano del laboratorio batteriologico e due barcaioli proprietari delle due botteghe.

Le guardie carcerarie sono un'ottantina. Vi è poi un presidio di 40 soldati comandato da un tenente; questo presidio che è distaccato da un reggimento di stanza a Livorno cambia ogni due mesi". Sempre il Somier ci informa che i "condannati" erano circa 800.

Può destare curiosità la presenza di un laboratorio batteriologico, ma poco dopo il botanico ci informa che: "L'edifizio del Marchese essendo il più lontano dal porto, e il più isolato, le stanze abitabili che vi si trovano sono state assegnate al laboratorio batteriologico di Roma per tenervi gli animali ai quali si inoculano malattie infettive. In prossimità è stato costruito un piccolo forno crematorio dove questi animali vengono poi inceneriti".

Fu "ospite" della diramazione del Sembolello nel 1932 anche il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, incarcerato per motivi politici. In quegli anni a Pianosa abitavano circa 60 famiglie, forse è il momento di maggior presenza di civili a Pianosa.

Nel 1938 venne installato sull'isola il primo motore diesel per la produzione di energia elettrica a 160 volt. L'energia elettrica è stata sempre fornita da motori diesel finio ai primi anni '90, quando l'isola venne collegata all'Elba mediante un cavo sottomarino.

Con la disponibilità di energia elettrica, i pianosini poterono vivere i primi anni del secondo conflitto mondiale ascoltando per radio le notizie dai vari fronti, ma tra il 16 e il 17 settembre 1943 l'Isola d'Elba e Pianosa venivano investite da paracadutisti tedeschi, cui poco dopo seguivano sbarchi di uomini e materiali. Iniziava l'occupazione che sarebbe durata nove mesi. Pianosa venne dotata dai tedeschi di un presidio di circa 30 uomini.

Il 19 marzo 1944 una piccola pattuglia di truppe franco-coloniali, provenienti dalla Corsica, sbarcava sull'isola. Seguì un breve scontro, nel quale persero la vita un sottufficiale tedesco e, per errore, un agente di custodia. I francesi si allontanarono portando via una quarantina di ostaggi, tutti Agenti di Custodia. A quei tempi gli Agenti indossavano una divisa nera, e vennero forse scambiati per fascisti.

Un mese dopo, il 17 aprile 1944 un bombardiere alleato sganciò alcune bombe presso la direzione del carcere, il bilancio fu di sei morti, tutti italiani, tra cui il medico del carcere, il comandante degli agenti di custodia, un impiegato e tre reclusi. Il 16 giugno iniziava l'operazione "Brassard", cioè l'invasione dell'Elba da parte delle forze golliste francesi.

A Pianosa furono destinati reparti di commandos e truppe d'assalto coloniali, comandati dal Tenente Colonnello Garnier Dupré. I tedeschi, dopo aver distrutto il semaforo della Marina, evitarono però il combattimento sull'isola, raggiungendo con uno stratagemma le loro forze sull'Elba: il grosso convoglio dello sbarco alleato diretto all'Elba transitava a Sud di Pianosa per poi puntare sulla spiaggia di Campo; viaggiando di notte ed in acque nemiche l'illuminazione sulle navi era ridotta al minimo indispensabile, di questa situazione approfittò il comandante del presidio tedesco di Pianosa, il Tenente Gerd Rau, per lasciare l'isola con i suoi uomini. I tedeschi requisirono un piccola motobarca, lunga una decina di metri, il "Maurizio", adibita normalmente al trasporto merci tra Pianosa e L'Elba, e avvisarono le navi alleate della loro presenza con segnali luminosi, in modo da far credere di essere parte del convoglio da sbarco. Giunti al sicuro sotto la costa elbana, i tedeschi si allontanarono dalle navi dirigendosi al Cavo, dove erano dislocati alcuni loro reparti.

Una partenza frettolosa e una fuga avrebbero certamente insospettito gli alleati, il trucco messo in atto dal comandante tedesco era rischioso ma era anche l'unico modo per raggiungere indenni l'Elba.

Dopo aver sbarcato le truppe ed aver accertato la ritirata dei tedeschi, anche gli alleati abbandonarono Pianosa per dirigersi sull'Elba, dove infuriavano i combattimenti.

Il dopoguerra 

La fine delle ostilità significava per Pianosa il ritorno alla sua funzione originaria, cioè luogo di reclusione e pena. Non pochi, infatti, furono gli ex-fascisti e i reduci della R.S.I. reclusi sull'isola subito dopo la guerra.

Con il passare del tempo, l'amministrazione carceraria provvide per quanto possibile alle necessità di tutti i presenti, cercando di alleviare i disagi della popolazione civile.

Le navi di linea dell'Arcipelago andarono tutte distrutte durante il conflitto e nell'immediato periodo postbellico i regolari collegamenti con l'Elba e con il continente vennero ristabiliti con piccoli bastimenti privati, ai quali subito dopo subentrerà la Società di Navigazione Toscana (oggi TO.RE.MAR.).

Oltre agli Agenti di Custodia, sull'isola erano presenti una stazione dei Carabinieri, (fino agli anni '60) e un distaccamento della Guardia di Finanza, (fino agli inizi degli anni '70) con compiti anche di Delegazione di spiaggia.

Nei primi anni '60 tutte le abitazioni private furono dotate di acqua corrente.

La tranquilla routine veniva talvolta interrotta dai veri o presunti tentativi di rivolta o evasione da parte dei reclusi meno adattabili alla detenzione sull'isola.

In sintonia con i cambiamenti in atto nel Paese, gli anni '70 segnarono una brusca interruzione nel clima generalmente sereno dell'isola.

Ad alcuni momenti festosi, come l'arrivo, ogni estate, dei calciatori di "serie A", impegnati in tornei calcistici con gli Agenti di Custodia e i reclusi, si alternarono avvenimenti illeciti o violenti, come il traffico delle "donnine" e l'omicidio, nel 1974, del direttore del carcere Massimo Masone, ad opera del detenuto addetto ai servizi della foresteria.

In quegli anni vennero costruiti una pista di atterraggio per piccoli aerei e il nuovo pontile di attracco; per volere del Generale Dalla Chiesa la Diramazione Agrippa (l'ex Sanatorio) fu trasformata in carcere di massima sicurezza, e nel 1979 venne portato a termine il nuovo muro di cinta in cemento armato, vera barriera fisica ma anche simbolica che divise così l'isola in due comunità ben distinte: i reclusi e i liberi.

Nonostante la pesantezza del clima carcerario instauratosi sull'isola durante gli "anni di piombo", già nel 1970 troviamo la prima proposta di creazione di un Parco Naturale a Pianosa, ad opera del Gruppo di Ricerche Scientifiche e Tecniche Subacquee di Firenze (G.R.S.T.S.), alla quale è seguito però un lungo silenzio da parte delle autorità competenti, rotto soltanto dall'istituzione di una riserva marina nel 1979, attuata solo sulla carta.

Negli anni '80 si comincia a prospettare, da più parti, l'ipotesi di chiusura del carcere e la restituzione di Pianosa alle competenti autorità civili, in previsione di questa possibilità, il numero dei reclusi viene drasticamente ridotto e di conseguenza cessano le varie attività svolte dai detenuti. E' da tenere presente che a questa data non esisteva nulla di ufficiale per un eventuale rilancio di Pianosa. Il Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano infatti, nato con la legge regionale 67/1988 e con la delibera CIPE del 5/8/88, non comprendeva Pianosa, che rimaneva esclusa insieme ad Elba e Giglio anche dalla perimetrazione provvisoria del Parco pubblicata con decreto del Ministro dell'Ambiente del 21/7/89 e dalla legge quadro sulle aree protette n.394 del 6/12/91.

Nel persistere di questa situazione di stallo, in seguito all'emergenza dettata dagli attentati ai magistrati Falcone e Borsellino, il governo decide la immediata riapertura del carcere di massima sicurezza sull'isola, relegandovi i detenuti per reati di tipo mafioso.

Questa nuova situazione trasforma Pianosa in una fortezza, inaccessibile a tutti, con la sezione Agrippa a sua volta separata dal resto dell'isola; Pianosa viene vigilata giorno e notte da Agenti di Custodia, Carabinieri, Polizia, vengono istituiti rigidissimi divieti di sorvolo e di navigazione nelle acque circostanti.

L'emergenza si protrae fino al luglio 1997, quando l'ultimo detenuto per mafia viene trasferito dall'isola ad altre sedi di reclusione sul continente, e per il carcere di Pianosa si ricomincia a parlare di chiusura.

Una chiusura quasi definitiva nell'agosto del 1998, non essendo rimaste sull'isola che poche forze dell'ordine con compiti di vigilanza e di guardia alle strutture.

Con l'istituzione dell'Ente Parco dell'Arcipelago Toscano (Decreto del Presidente della Repubblica 22/7/96) il territorio di Pianosa risulta formalmente inserito nel Parco e le sue acque lo saranno poco dopo.

Il futuro di Pianosa rimane al momento ancora incerto, anche se il Comune di Campo nell'Elba ha presentato un progetto di riqualificazione dell'isola a fini didattico-scientifici e di turismo controllato.

L'esistenza di un Ente quale il Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano dovrebbe comunque costituire una valida garanzia per la salvaguardia e il mantenimento del notevole patrimonio archeologico e ambientale presente sull'isola, nonché la definitiva restituzione di Pianosa al "mondo libero", conosciuta non più come luogo di sofferenza ma esclusivamente per le sue bellezze e la sua storia.

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